Giuseppe Scapucci
Alberto Maria Cuomo
INNAMORATO DI POESIA
Proponiamo l’opera di Peppino Scapucci con l’auspicio di divulgare la conoscenza di un personaggio straordinario, la cui scrittura poetica è legata al sacrificio, al sacrificio stesso della vita, che, proprio perché sperimentato, egli ha saputo tradurre in arte, celebrandolo in armonia con la semplicità e la sincerità del mondo contadino a cui apparteneva orgogliosamente e di cui custodiva gelosamente la cultura.
Oggi la conoscenza della Poesia, dell’Arte, del Pensiero è un varco vitale per fuggire dalla dinamica perversa dell’indifferenza, dall’esistenza svuotata della sua sostanza, dalla comunicazione-spazzatura dei media - dove sequenze di segni e messaggi di tutti gli ordini si equivalgono per essere consumati dalla vacuità della spettacolarizzazione -, per fuggire dalla vita virtuale.
L’opera di Peppino nasce dalla seduzione insita nella vita; nasce alla vita come un aggregato di centri palpitanti; essa si schiude e si riconosce nel grido di stupore dell’Uomo: “io vedo, io sento, io penso!” Un “io” sensibile che si stacca dalla chiacchiera, dall’opinione comune, si raccoglie in un punto dinamico, si avverte come un “poter vedere, poter sentire, poter pensare” e si propone come centro attivo di vita progettante.
Innamorato di poesia, Peppino ha saputo passare dallo stato di oscura necessità (dei molti) allo stato di libertà (di pochi), proteso in ogni istante a scavalcare i punti di arresto; vita che avanza nel sacrificio – nel significato autentico del termine: “compiere un atto sacro”- protesa a farsi in ogni istante più che vita: immagine, segno, pensiero, scrittura, arte.
Innamorato di poesia, Peppino non poteva non essere ammaliato dalla natura, che è vita, con i suoi ritmi e le sue bellezze, che per lui erano fonte di inesauribili suggerimenti poetici; non poteva non cogliere il tesoro di umanità che emana dai diseredati, dai non omologati, da chi sopravvive faticosamente; non poteva non essere un amico, vale a dire un “custode dell’animo”. Tra le sue amicizie la più grande era quella con la Divinità che lo portava a diffidare di tutti coloro che fanno uso dell’Onnipotente per promuovere gli interessi personali o politici; così come, fedele alle proprie origini, non sopportava gli arroganti, i boriosi, i saccenti, i tracotanti i mistificatori, contro i quali scagliava gli strali della sua acuta e dirompente ironia.
A Binasco e dintorni tutti conoscevano Peppino. Chi lo voleva incontrare sapeva che dopo cena lo avrebbe certamente trovato sotto i portici, o seduto sul muretto del castello o al tavolino di un bar in attesa di darsi agli amici. Da questi consueti punti di ritrovo spesso si partiva per i vagabondaggi serali o notturni, anche in inverno (il calore umano della comitiva sconfiggeva anche il gelo), verso la Madonnina, Pasturago, il Malcantone. Mentre lentamente si camminava, animatamente si discuteva di poesia, di letteratura, di religione, di ideologia. E ognuno si raccontava, finché, tornati al punto di partenza ci si salutava e si rientrava a casa col cuore colmo di speranza e la mente brulicante di pensieri.
Alcuni giovani studenti o lavoratori al primo impiego, con il coraggio di pensare e l’amore per comunicare, cominciarono a frequentare Peppino tra la metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, affascinati dal suo innamoramento poetico: durante i pomeriggi primaverili lo avevano visto presso il ligustro ad assaporare il profumo della rinascita stagionale; lo avevano incontrato al limitare del pioppeto di cascina Melone, mentre annotava le proprie idee su un taccuino con le gambe che penzolavano dalla sponda della Bareggia; lo avevano incrociato mentre pedalava per i viottoli della nostra campagna alla ricerca del suo mondo contadino. Questi giovani divennero amici di Peppino e anch’essi si innamorarono di poesia. Oltre che nella piazza del paese, cominciarono a ritrovarsi anche in casa di un amico o dell’altro. Si ascoltava musica, si leggevano opere teatrali e alcuni, più coraggiosi, proponevano le loro prime prove poetiche
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Nel frattempo l’inesauribile Peppino, che da “sempre” scriveva, faceva trovare nelle loro cassette della posta i suoi Samizdat, raccontava loro i suoi progetti letterari e, a volte, donava una copia di qualche sua opera inedita.
Ogni settimana ci si ritrovava con rinnovato entusiasmo e si leggevano le nuove poesie. «E come innamorati, dopo il primo periodo di appuntamenti clandestini, si cercò casa per starsene liberi e autonomi il più possibile». La casa fu trovata a Pasturago, nella vecchia canonica presso la chiesa parrocchiale di S. Mauro. Si costruì un palco, si misero una sessantina di poltroncine, si realizzò l’impianto elettrico, si pagò l’affitto e il riscaldamento di tasca propria e si iniziò a leggere poesie, a recitare teatro e ad ascoltare musica.
«Subito fiorirono le novità, volontà di fare, d’essere inventivi, creare, dire tutto ciò che usciva dall’animo. Questa minuscola attività artistica era l’unica possibilità di esprimersi. Si proiettarono film, audiovisivi, si organizzarono dibattiti su poesia, pittura, ideologia. Si iniziarono le prime mostre pubbliche di pittura, con molto successo ed entusiasmo, si arrivò perfino a una “Settimana della poesia”, che meravigliò e suscitò interesse tra la gente. Questa schiera di artisti non ha mai avuto bisogno di capi; ognuno rispondeva della propria azione e collaborava con tutti.» (Così Peppino scriveva del Gruppo di Pasturago nel 1981).
Dopo la sua scomparsa, alcuni di quegli amici di Peppino continuarono a proporre, non solo a Binasco, la sua opera. Sono quegli amici che con lui nell’aprile del ’74 organizzarono la “Settimana della poesia” stravolgendo poeticamente l’impianto urbanistico di Binasco; che con lui misero in scena Il martirio di Pietro O’Hey di Mrozek; che con lui filmarono tra il mais di agosto alcune scene di Nozze; che con lui sperarono in un mondo migliore; che oggi auspicano che i giovani possano ancora «illuminare con la loro presenza» e che le «magnolie e i tigli possano profumare di nuovo le serate estive, così brevi nel gelo di ogni cuore.»
Scrittore singolare, nell’opera di Scapucci si nota un antiaccademismo molto forte ed il gusto innato dell’esperimento linguistico, avvivato da un’immaginazione estrosa, veloce e sostanziato da un gusto ironico e amaro del vivere ricco di umane e morali risonanze. Scapucci crea un impasto linguistico innovativo, nato da dall’ansia di ricerca personale, nel cui fondo vi è una sorta di sensualità linguistica e – a parte i pregi notevoli degli effetti artistici – è, ancora oggi, storicamente significante della crisi e del travaglio linguistico contemporaneo.
BIOGRAFIA
Giuseppe Scapucci nasce a Binasco 1’8 ottobre 1926. Papà Luigi è muratore; mamma Esterina, mondina, alterna il lavoro nei campi con quello di operaia in piccole aziende artigiane.
Nei primi tredici anni di vita, Giuseppe cambia tre volte abitazione: via Garibaldi, via Don Minzoni, e al Carunè (l’odierna via Costa); sono gli anni dei giochi con gli amici coetanei, documentati, anni dopo, in alcuni racconti. In seguito abita per molti anni alla Villata ed infine, dal 1965, in via F.lli Cervi, in zona Cascina del Ferro. A 11 anni, terminate le scuole elementari, deve contribuire a sbarcare il lunario della famiglia e lavora come garzone del fruttivendolo “Ricu Tessera” detto Spuenta: insieme, alle 5 del mattino, col carretto si recano al Verzè – il mercato ortofrutticolo – e poi girano per le cascine della Bassa milanese per la vendita ambulante della frutta e della verdura.
A 14 anni trova lavoro a Milano come tornitore nella ditta Galieni-Viganò-Marazza, dove già lavorano una ventina di binaschini. L’azienda produce raccordi idraulici e rubinetterie e, durante il periodo bellico, pezzi per navi e sommergibili. Ma una notte dell’agosto 1943 la fabbrica viene bombardata e ridotta a un cumulo di macerie. Giuseppe, disoccupato, riesce a trovare lavoro come attrezzista nella cooperativa dei falegnami di Binasco.
Dal 1943 al 1947 frequenta la scuola serale professionale di tipo commerciale, istituita all’interno dell’oratorio di Binasco. Insegnanti sono i professori Rossi e Garavaglia, sfollati da Milano in seguito ai bombardamenti del ’43. Fu proprio il professor Garavaglia a suscitare in Giuseppe l’interesse per la letteratura e, intuendo nel giovane l’attitudine alla scrittura e l’amore per la lettura, quando se ne andò da Binasco, gli donò una cassa piena di libri: la prima biblioteca di Giuseppe.
Nel 1947 deve interrompere gli studi per prestare servizio militare prima a Palermo – è il periodo di Salvatore Giulano – e poi a Roma. Sono questi i primi suoi viaggi e le sue prime esperienze lontano dalla terra natale.
Terminato il servizio militare, torna a lavorare come falegname per un certo numero di anni e inizia a scrivere racconti (in questo periodo scrive anche lettere d’amore che gli amici inviano alle loro “morose”).
Intanto entra nella banda parrocchiale come corno inglese e diventa attivista dell’Azione Cattolica, di cui è anche eletto presidente per un anno.
Nell’estate del 1951 da Bordighera invia il manoscritto del suo primo romanzo Venerina ad un concorso letterario riservato ai giovani scrittori.
Cambia ancora lavoro: ora è alla cooperativa API come venditore di maglieria. Intanto frequenta la scuola statale serale Oriani di Milano e nel 1956 consegue il diploma di avviamento professionale ad indirizzo commerciale e viene assunto come impiegato presso l’Ufficio Commercianti.
Dall’inizio del 1960 alla fine del 1961 lavora come corrispondente comunale per il lavoro e dal 1962 è impiegato all’Ufficio di collocamento.
Nell’ottobre del 1961 muore papà Luigi.
Sono di questo periodo le stesure di alcuni racconti e del romanzo I minuti secondi, la cui correzione e scrittura definitiva avviene durante il viaggio di nozze, celebrate il 3 novembre 1962 con Annamaria Rognoni.
Dal 1950 con un gruppo di amici binaschini matura il desiderio di un cristianesimo più aderente al testo del Vangelo che lo spinge a conoscere don Primo Mazzolari e ad avere con lui una fitta corrispondenza. Dopo la morte di don Primo (1959), Giuseppe ed Emiliano Vercellesi, l’amico di tutta la sua vita, inviano una copia del libro La Parrocchia a quasi tutti i sacerdoti d’Italia.
A partire da questi anni, i ricordi di Giuseppe, i suoi amici, le situazioni, i casi della vita, i racconti dei conoscenti, diventano materiale per la scrittura e si concretizzano in poesie, racconti, drammaturgie, romanzi e storie per film.
La Vita e l’Amore, sentiti sinceramente nel loro irrinunciabile valore esistenziale, lo spingono a non essere mai indifferente ai bisogni e alle necessità del prossimo. Contrapposta a questa innata generosità in Giuseppe c’è un’irrefrenabile intransigenza, che lo porta alla denuncia pubblica con le sue opere letterarie, nei confronti della meschinità, dell’arrivismo, della prevaricazione, dei subdoli giochi di potere.
Tra il 1968 e il 1972 alcuni giovani danno vita a vivaci gruppi culturali; alcuni di questi giovani diventano intimi amici di Giuseppe e con il suo stimolo tutto diventa fermento, tutto è messo in discussione, la cultura binaschina rinasce: vengono organizzate mostre di pittura, letture di poesie. Nel 1974 viene proposta ai binaschini la settimana della poesia e il paese si riempie di enormi cubi e parallelepipedi di polistirolo itineranti, sulle cui facce vengono trascritte in caratteri cubitali poesie di autori d’avanguardia.
Il 1974 è anche l’anno della fondazione del Gruppo di Pasturago, con sede nella vecchia canonica della chiesa parrocchiale, con teatrino nel quale si recita, si rappresentano opere teatrali, si proiettano film d’autore e audiovisivi, si ascolta musica, si organizzano conferenze e dibattiti. La fama del gruppo presto si allarga e anche dai paesi vicini giungono poeti e artisti che vogliono partecipare e confrontarsi per crescere culturalmente.
Iniziano le amicizie con alcuni scrittori, registi o critici letterari: con Colla della casa editrice La Locusta, con Pontiggia, con Bonura, con Barsacchi e con la compagnia teatrale i Rabdomanti di Milano. Nel frattempo intrattiene rapporti epistolari con Carlo Bo e con Ferruccio Parazzoli.
Quando i figli Luigi e Mario sono grandicelli, Giuseppe intraprende una serie di viaggi; il suo è turismo letterario per trovare ispirazione e conoscenza dai luoghi celebrati da scrittori e poeti o nei quali essi vissero.
1972: è in Unione Sovietica «per respirare l’aria» di Majakovskij, di Pasternak e di altri dissidenti (anche Giuseppe, quando scrive, si sente un dissidente e, dopo quel viaggio, cominciano ad arrivare nelle case degli amici i suoi Samizdat).
1973: visita Parigi, Bruxelles e Londra.
1974: si reca in Norvegia guidato dalla lettura appassionata del dramma Casa di bambola di Ibsen.
1975: soggiorna in Egitto.
1976: dopo aver letto le opere di Kafka, visita la Cecoslovacchia e si reca a Praga «tra i corvi neri del cimitero ebraico».
1977: è in Marocco e in Spagna: qui visita l’Andalusia e la Fuente Grande, dove Garcia Lorca fu fucilato dalla guardia civil.
1978: visita la Grecia, la Turchia e i loro templi.
1980: si reca in Israele.
1981: visita la Germania, l’Austria e il campo di sterminio di Mauthausen.
1982: ha in programma per settembre un viaggio in Egitto, perché in quella terra è ambientato L’amante dell’ingegnere, il romanzo che ha in cantiere.
Un incidente stradale tronca improvvisamente la sua vita il 31 agosto 1982.
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Ha pubblicato: Poesie di periferia (raccolta di poesie, 1971), La bestia addosso (romanzo, 1976), Epica contadina (romanzo, 1978).Nel 1979 l’editore Mondadori ha stampato alcune sue poesie nell’Almanacco dello Specchio.
Ha avuto diversi riconoscimenti: 1968, premio di poesia Amalfi (presidente della giuria, Salvatore Quasimodo); 1970, premio di poesia Cervia (con Carlo Bo presidente della giuria); 1972, premio per il teatro “I Rabdomanti” con la commedia Miss Agony; 1975, premio Scanno per il romanzo inedito; 1977, segnalato al premio Riccione di teatro con l’opera Una malattia chiamata uomo; 1983, premio di poesia Mede.
Nei cassetti di Giuseppe è rimasto moltissimo materiale inedito di grande valore (poesia, racconti, romanzi, commedie, sceneggiature).
Binasco, maggio 2016
© Alberto Maria Cuomo. Per gentile concessione.